Questa intervista inizia con un ringraziamento a Dio e si svolge in una casa come tante: un padre, una madre, due bimbi bellissimi, con occhi neri che non possono essere raccontati, vanno visti e basta. Il più piccolo trascorre l’intera chiacchierata sulle mie ginocchia. È la prima volta che mi capita di fare domande con un bambino in braccio, è una cosa piccola forse sciocca, ma che mi ricorda dopo tante settimane di corsa e routine che questo, per chi lo ama, è il mestiere più bello del mondo.
Mansour ed Helen sono nigeriani, parlano a stento l’italiano, io ancora meno l’inglese, così ci aiuta a comunicare Laura, una giovane operatrice sociale, una figlia italiana di cui andare fieri, di quelle che si capisce lontano un miglio che lo fanno per passione questo mestiere, che ci mettono l’anima, perché questa non è certo l’epoca che lavori per i soldi.
Ma della Nigeria Mansour non vuole parlare. Prima di iniziare a raccontare fa due precisazioni, la prima, con lo sguardo atterrito e ferito, è quella di non voler raccontare il motivo per cui con la famiglia si è trasferito in Libia, per scappare chi sa da quale orrore, troppo dolore, e non insisto. La seconda è quasi poetica “Per prima cosa, comunque, devo ringraziare Dio“. E in quel “comunque” scorre la storia che questa intervista ha raccolto per voi.
In Libia, Mansour, per sopravvivere e mantenere la famiglia lava le macchine, ma per “vivere”, che è cosa ben più grande, gioca a calcio in serie A. Di pallone ne capisco poco, ma una cosa la noto, i suoi occhi, quando citiamo questo sport, si illuminano come quelli di un bambino, ed è proprio in quei momenti che noto ancora di più l’assomiglianza con le sue creature. Ma la Libia non è il paradiso che forse avevano immaginato scappando dall’inferno della loro terra. È un Paese che ha fatto accordi internazionali per bloccare nei suoi confini i profughi e non farli imbarcare verso l’Europa tanto idealizzata, non sono rari gli episodi di violenza, fino al giorno in cui, durante la notte, mentre la guerra civile per scacciare Gheddafi impazza nelle città, i soldati del dittatore armati entrano nelle case di tante famiglie e senza permetterli di raccogliere le loro cose li sbattono fuori e li obbligano a recarsi al porto per imbarcarsi in qualche carretta del mare verso Lampedusa.
Non bisogna essere esperti di politica internazionale per capire che si tratta di una vendetta delle milizie del colonnello che hanno pensato bene di scaricare in mare tutti coloro che prima, per trattati, venivano bloccati nei confini libici.
È in piena “Emergenza Nord Africa” che Mansour ed Helen vengono spinti con altre migliaia di persone verso un porto che doveva scacciarli. “Ma mentre salgo sulla barca, mi rendo conto che dietro di me mia moglie e mio figlio non ci sono più e impazzisco di disperazione“.
Giugno 2011, sono 30 ore di viaggio, arrivo a Lampedusa e corsa contro il tempo per tentare di ritrovare sua moglie e suo figlio. Trascorrono alcune settimane e Mansour provato fisicamente e moralmente viene caricato nella stiva di una nave italiana, (sì, si tratta proprio di una stiva) assieme a tantissimi altri profughi dell’Emergenza Nord Africa, per l’ennesimo viaggio della speranza della sua vita. Un’attraversata per lo stivale che come prima tappa fa la Sardegna. Qui viene ricoverato a Sorgono, dove ha sede un’accoglienza gestita dall’organizzazione che li ospiterà per alcuni mesi, il Consorzio Solidarietà di Cagliari, ormai debilitato e distrutto dal dolore che la separazione dalla sua famiglia gli ha provocato.
Un giorno durante il ricovero però fa un sogno, vede Helen e il bambino a Lampedusa, scampati alla guerra. Reagisce dopo giorni infiniti trascorsi a letto e cerca di chiamare la moglie che forse si era portata con se un telefono cellulare in quella tragica notte di fuga.
È così fu, Helen cercò di salire nella barca successiva per raggiungere l’isoletta italiana e quindi suo marito, conservando la batteria del telefono per il momento in cui sarebbe arrivata e il marito si fosso messo in contatto con lei. Tutto questo accade in una calda mattina di fine giugno. Pochi giorni dopo, a luglio, marito e moglie si ritrovano al porto di Cagliari, un abbraccio fotografato e raccontato da alcuni giornali locali. Un lieto fine che è l’inizio di un’avventura faticosa e tormentata chiamata: integrazione.
Oggi Mansour e la sua famiglia hanno hanno un permesso di soggiorno per motivi umanitari di un solo anno. Dopo l’infelice esperienza con Sardegna tirocini, oggi lavora come giardiniere nelle cooperativa sociale Primavera 83 socia del Consorzio Solidarietà. Il bimbo più grande che visse con la madre quel tragico viaggio in mare in solitudine, oggi è iscritto alla scuola materna, parla inglese e italiano, e fra poco saprà dire qualche frase in sardo, è un bambino del mondo, ma che come il fratellino nato addirittura in Italia, non potrà avere la cittadinanza, perché viviamo in un Paese che non accoglie “figli”, ma che li relega a una condizione di apolidi per inciviltà.
Helen è forte, sorride quando il marito racconta della sua disperazione mentre li aveva lontani. Chi sa quanto ha sofferto e ha avuto paura anche lei, ma forse oggi le basta sapere che tutto, per ora, si è risolto per il meglio.
Il Consorzio Solidarietà, in cui lavora Laura ha accolto nel 2011, venti profughi sui circa 400 arrivati nell’isola, tutti gestiti da una rete di associazioni fra cui anche la Caritas che hanno coordinato assieme questa emergenza. L’Emergenza Nord Africa è scaduta il 31 dicembre ed è stata prorogata fino al 21 marzo. In questo lasso di tempo tanti sono partiti e hanno lasciato la Sardegna per raggiungere altri paesi europei o regioni italiane. Lo stesso Consorzio oggi gestisce solo la famiglia di Mansour, quattro persone, a cui ancora assicura sostegno e assistenza anche economica. Dal 21 marzo, giorno in cui è scaduta anche la proroga, si lavora con un po’ di incertezza, per ora infatti c’è solo una circolare del Ministero degli Interni che assicura a tutte le persone “vulnerabili”(minori non accompagnati, famiglie con minori, persone che hanno subito violenze) di continuare a ricevere assistenza ma i termini non sono ancora ben definiti, manca una direttiva chiara in merito al loro futuro e a come dovranno comportarsi gli enti come il Consorzio Solidarietà.
Mansour l’abbiamo conosciuto a Cagliari, dopo che si è trasferito da Sorgono, ( paese rimasto nel cuore sia a lui che a Helen) in un torneo amatoriale di calcio a 7, il Maracanà. “Dalla serie A in Libia, passando per l’Eccellenza a Gavoi, ora devi accontentarti dei tornei amatoriali?“-gli chiedo sorridendo- “Giocare per me è importantissimo, ne ho proprio bisogno. Certo a Gavoi ero in eccellenze e a Cagliari faccio gli amatoriali, ma pur di inseguire il pallone, vanno bene anche quelli“
Scattiamo alcune foto, anche se non sono per l’intervista ma per loro, un’ultima chiacchierata informale e qualche bacio in più ai bambini perché l’affetto, anche di una sconosciuta, non è mai troppo.
.E a casa a scrivere. una storia che vorrei fosse letta più di una notizia di gossip o una partita di calcio. Questa è la partita di una vita, di una squadra che si chiama famiglia, in un torneo che si chiama integrazione in Italia.